L’enigmatica lapide murata al contrario: il mistero disvelato

Una lapide piuttosto singolare cattura l’interesse dei visitatori di passaggio in città, tanto che dall’ufficio turistico a suo tempo domandarono lumi in archivio storico per saperne qualcosa di più. Adesso anche alcuni concittadini hanno avanzato la stessa richiesta, pertanto qui di seguito se ne dà una concisa spiegazione, sperando possa essere utile a sanare la curiosità di chi si chiede cosa sia.

Va detto che di lapidi e di iscrizioni marmoree a Fossano ve ne sono diverse, ma spesso l’occhio non vi bada perché abituato a passarci dinnanzi tutti i giorni.

Nel caso in oggetto la questione è differente: innanzitutto perché sta murata sul lato destro della chiesa medievale della Madonna del Salice, la parrocchiale la cui storia è accennata QUI. Non la si può non notare, passando dalla piazzetta Bima verso l’attiguo parcheggio limitrofo alla casa circondariale del Santa Caterina, perché salta alla vista con la sua massa grigiastra, rispetto al fondo chiaro e omogeneo del muro.

E soprattutto perché, avvicinandosi, si scopre che fu collocata al contrario, ossia “a testa in giù”. Contrariamente a ipotesi fantasiose del genere: “perché così dal Cielo la si può leggere agevolmente e almeno ci si ricorda dell’anima del defunto“… fu verosimilmente un provvedimento di fortuna per tamponare un’apertura creatasi nella parete dell’edificio.

Il testo della lapide

L’epigrafe è redatta in altorilievo, in maiuscola romana, a tratti curata, come si evince dai capitelli in molte delle lettere, e dalla precisione di alcune, come la «Q», nonostante una non troppo calibrata disposizione delle parole che costrinse lo scultore a troncature piuttosto azzardate.

A suo merito va il fatto che non incise sul supporto – operazione ben più facile e immediata – ma usò lo scalpello per dare corpo alle lettere tirando via il di più della pietra.

Il testo originale, ovviamente desunto girando di 180° una fotografia
(QUI) recita:

D [OMINUS] FRANCISCUS BOETTU[S] / SU[A]E FAM[I]LI[A]E ULTIMUS / COMES PORNATII /ET CASTELLETTI / EQUES S[ANCTORUM] MAURITII / ET LAZARI SELEGUM / CENTURIO ET PEDEST= /RIUM MAGISTER / AD[H]UC VIVENS E[T] MILIT= /ANS SUI FINIS MEMOR /APUD FAMILIA=/ REM ARAM / SEPULCRUM SIBI PA=/ RAVIT /ANNO 1770 /QUIEVIT ANNO / 1790 /LI 23 MARZ(Z)O

Dunque la lapide, che sarebbe servita per il sepolcro di famiglia, fu commissionata da Francesco Boetti quand’era ancora in vita: un modo per tutelare la propria memoria qualora fosse deceduto d’improvviso.

D’altronde era l’ultimo a perpetuare il nome dei conti Boetti.

E dire che – ironia del destino – il nobile raccoglieva, nel bene e nel male, l’eredità di una famiglia che in città proprio in quel secolo si era imposta con una presenza parecchio ingombrante, come annota Luisa Gentile, studiosa d’araldica:

Ma sopra tutte le altre famiglie, una in particolare tappezzò la Fossano del Settecento con le proprie insegne: quella dei Boetti. Non si trattava solo di albagia nobiliare, o della memoria di beneficenze e committenze: era il segno del potere, o meglio dello strapotere, che la casata occupava in città. Quando nel 1719 Vittorio Amedeo II affidò all’avvocato Giuseppe Maino un’indagine sullo stato delle amministrazioni locali nelle varie province, il quadro che emerse per Fossano era piuttosto fosco: la comunità era nelle mani del conte Boetti, i cui uomini «si servono liberamente dei denari della città, stendendo li mandati senza ordine né partecipazione, che poi mandano a sottoscriverli dai sindaci che non ponno opporsi».

Stemma dei Boetti conservato nel museo Adriani a Cherasco

Il riferimento era al nonno Giovanni Francesco, che con il nipote aveva in comune l’appartenenza, come cavalieri di giustizia, all’Ordine sabaudo dei Santi Maurizio e Lazzaro.

Quest’ultimo, Francesco, che si chiamava pure Maria Giuseppe Giovenale, nacque a Fossano il 1 dicembre del 1716, figlio di Filiberto Bernardino, il quale morì prima del nonno Giovanni Francesco.

Il casato, stando alle dichiarazioni catastali settecentesche, possedeva un ingente quantitativo di beni immobili. A lui soltanto – escludendo i Beni di Casa coltivati soprattutto a moroni, ossia gelsi -, appartenevano sia una cascina a San Sebastiano Rotto e terreni limitrofi per 45 giornate di terreno; sia la cascina di Cussanio, e altri appezzamenti, per un totale di 65 giornate piemontesi. La madre, la contessa Laura Bernardina, figlia dei nobili Negri, aveva una cascina al Lirano Grosso, una al Lirano Piccolo, una a San Martino, per un totale di ben 89 giornate di terreno tra campi, prati, alteni.

Lui si era dato alla carriera militare: dapprima capitano nel Reggimento d’Aosta, ottenne poi nel 1774 il grado di tenente colonello di fanteria; in seguito divenne maggiore del Reggimento provinciale d’Ivrea e, nel luglio del 1775, fu nominato colonello. L’anno dopo si ritirò dall’esercito.

Aveva sposato la fossanese Francesca Barberis, dalla quale ebbe una figlia, Gabriella, che il 28 gennaio 1792 ottenne l’investitura del feudo di Castelletto d’Ussone, dunque due anni dopo la morte del padre settantaquattrenne.

La traduzione della lapide

Per comprendere meglio il contenuto del testo latino, qui di seguito c’è la traduzione in italiano:

Il nobile Francesco Boetti, del suo casato l’ultimo conte di Pornassio e di Castelletto, cavaliere dei Santi Maurizio e Lazzaro, comandante delle truppe scelte e di fanteria, ancora vivente e in servizio, nel pieno possesso delle sue facoltà, nell’anno 1770 dispose per il proprio sepolcro presso la tomba di famiglia.

Qui giace dall’anno 1790, il 23 marzo.

L’ultima frase, manco a dirlo, è postuma, in caratteri leggermente più grandi, inserita dopo le volontà del committente. Tra l’altro il mese di marzo è scritto in italiano, oltretutto con due «z»… forse per amor di simmetria.


Note di riferimento