Si chiamavano celle, non per nulla: la Via Lancimano e l’edificio dell’Asl

Il titolo si riferisce alle stanze dove le monache di clausura si ritiravano per riposare e per pregare in solitudine: lo stesso nome definisce quelle nelle carceri, e talvolta in epoche passate il destino accomunava le recluse con i prigionieri:

«quelle sante case fabricate per libera dedicatione d’animi casti sono usate come per sentine di cose rifiutate dal mondo et spurgatoi et scaricamenti delle famiglie»,

stando alle considerazioni dell’età controriformista.

A Fossano il monastero più consistente fu voluto dal canonico Giovanni Negro, vicario generale della diocesi, che a metà Seicento si mosse per far arrivare in città le clarisse. Come per tutte le imprese impegnative fu necessario procedere a piccoli passi, e trovare i fondi per la costruzione. Prese accordi con il Comune, che s’impegnò a versare tremila lire per il fabbricato. Le motivazioni, registrate l’8 marzo del 1654, non nascondono nemmeno un poco la cruda realtà:

«che s’errigisca tal monastero per maggior decoro della città e per ricetto delle figlie, delle quali abbondono le famiglie et alle quali non resta luogo nel monastero di S. Catarina, unico di questa diocesi».

Insomma, a Fossano le case son piene di ragazze delle quali non si saprebbe che farne altrimenti: costituire doti consistenti per matrimoni di un certo livello manderebbe in bancarotta anche i nobili più agiati, e per giunta esiste un solo ricovero alternativo. Ben venga dunque un monastero concorrente: via libera alle clarisse!

Papa Alessandro VII con un breve apostolico concede l’imprimatur nel 1561, e iniziano così i lavori per ricoverare le figliole, manco a dirlo in gran parte provenienti dalla nobiltà locale.

Le monache osservano norme adattate dal canonico sul modello della Regola di Santa Chiara ratificata da papa Urbano VI.

Alle monache è concesso l’uso – moderato – delle visite parentali:

«la frequenza del Parlatorio diminuisce la stima, e buon concetto delle Religiose, e cagiona rilassamento, perciò nessuna Sorella potrà andarvi, salvo che sij chiamata, e con special licenza della Superiora. Né fermarsi ivi più d’un hora con i parenti, e circa mezz’hora con l’altre persone».

Comunque è vietato aprire la porta anteriore di accesso, salvo si debba introdurre materiale ingombrante che non possa passare attraverso “la ruota”, ossia una bussola in legno scorrevole, con un’apertura che gira verso l’esterno per metterci piccoli pacchi, e che gira a sua volta negli spazi protetti dalla clausura con la semplice spinta delle mani.

Una monaca portinaia, scelta in modo oculato per la sua discrezione, «di maturi costumi e zelante», si occupa delle consegne. Bada pure che la porta dell’uscio del parlatorio dalla parte della clausura resti sempre aperta, affinché le monache di passaggio possano buttare un occhio e sincerarsi che lì dentro si stia soltanto conversando. Sia mai, insomma… Manzoni docet.

La monaca portinaia, in maniera tassativa, non può lasciare le chiavi alle consorelle: ogni volta le deve riconsegnare alla madre superiora.

Quest’ultima sovrintende a tutto:

«non scriveranno le Sorelle lettera alcuna, ò biglietto, che non sia di cosa necessaria, e ragionevole, modesta e pia, e che si consegni alla Superiora per vederla e recapitarla».

È scontato che pure la posta in arrivo debba prima passare all’esame della Madre.

Il monastero ha così successo che nel secolo successivo, raggiunta altresì una notevole ricchezza, sopratutto fondiaria, potrà permettersi un consistente ampliamento e la progettazione di una chiesa su disegno dell’architetto Bernardo Vittone.

In pratica un intero quartiere viene riplasmato per allargare la struttura, facendo demolire le basse e modeste abitazioni attigue, nonché la chiesa di Sant’Antonio, la cui precettoria verrà spostata fuori le mura.

Due mappe settecentesche danno chiaramente l’idea di quanto fosse grande, e degli ingenti lavori di abbattimento delle case: in pratica dalla piazza del castello fino all’ospedale del Gallo tutto l’abitato si trasforma in un unico, poderoso complesso monastico, dotato di chiostro e di giardini con siepi e alberi.

    

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In questa veduta aerea si osserva dall’alto il monastero: è possibile notare la sezione posteriore della chiesa, poi abbattuta, sul cui sito sorge oggi una palazzina all’angolo tra Via Lancimano e la piazza Castello.

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Sulle abitudini delle clarisse ci si aggiornerà in un prossimo articolo: vale la pena conoscerne pratiche e consuetudini, che emergono dalle visite pastorali eseguite periodicamente per constatare l’andamento della vita claustrale.

 

Note di riferimento