Il “servizio” pubblico per le umane impellenze

Sul settimanale locale di questa settimana un articolo annunciava la costruzione di servizi igienici presso la tettoia in piazza Dompé. Ebbene, la questione dei “vespasiani” ha radici piuttosto lontane e, soprattutto, stupisce quanti ce ne fossero in giro per la città. D’altronde l’impellenza di far minzione fa parte della natura umana e tocca un po’ tutti: dai giovani che frequentano i locali a coloro ai quali l’avanzare del tempo rende sensibile la vescica.

E da qualche parte bisogna pur sfogare lo stimolo, se non si ha la possibilità di farlo a casa propria.

Appunto: casa propria. Nella seconda metà dell’Ottocento ben pochi possedevano i servizi igienici nelle loro abitazioni; addirittura molti neppure avevano le latrine in comune, tanto che il sindaco fu costretto a emanare nel 1873 un’ordinanza con cui obbligava ogni proprietario, entro quattro mesi dalla pubblicazione del manifesto, a dotare le abitazioni di un conveniente numero in cortile.

Già, in cortile. Non si è abituati ad immaginare la scomodità della pratica: uscire sui ballatoi, magari al freddo e al gelo, per rinchiudersi in uno spazio angusto al fondo del balcone, o – peggio – discendere le scale – senza ascensore – per raggiungere la latrina, con la speranza di trovarla libera e in buono stato.

I precedenti hanno dell’inverosimile, se solo ci figuriamo cosa potesse avvenire: un “quadretto” ce lo offrono le rimostranze di alcuni cittadini, qualche anno prima. Siamo nel 1855.

«Numerosissime case esistono in questa città, che vengono tutte munite di ritane con latrine scoperte, e che al più si nettano una volta all’anno…», così scriveva Giuseppe Allari a sua giustificazione allorché il residente al piano di sotto, il fabbro Salomone, aveva denunciato lo sconcio: «le materie fecali hanno libera caduta nello spazio sottostante ed al ripiano della scala (…), da tale altezza spandendosi sui muri e finestre attigue, del che scorgensi esistenti distinti indizi».

Le “rittane” designano spazi piuttosto stretti tra una casa e l’altra – sono ancora individuabili tra i palazzi in Via Roma, o nel borgovecchio, sebbene oggi in parte tamponate –, e servivano sia per arieggiare i muri tra un edificio e l’altro sia per evitare il propagarsi di incendi tra pareti altrimenti contigue, ma anche come scarico per le immondizie domestiche e “quant’altro”. Di tanto in tanto dalla vicina campagna arrivava in città chi provvedeva a ripulirle, utilizzando il tutto come concime.

Nel 1875 il Comune fece costruire un “cesso pubblico” presso il bastione del Romanisio, a ridosso delle mura adiacenti all’ospedale settecentesco: l’ubicazione nel sobborgo di Sant’Antonio era giustificata dall’andirivieni di venditori e contadini dal territorio verso la città.

Ma pure il bisogno di liberarsi le vesciche era oggetto di suppliche dei fossanesi affinché venissero installati orinatoi pubblici. I nobili Aliberti di Beinasco, proprietari del palazzo già della principessa Maria Vittoria di Savoia Carignano, il 4 dicembre del 1868 scrivevano al sindaco: «Nell’interesse dell’igiene pubblica occorrendo di collocare un pissiatojo nell’angolo della casa già Radicati [n.d.a. attuale Via Merlo]… lo scrivente ricorre onde voglia compiacersi di procurargliene uno per tale località, trovandosi già sottostante il voluto pozzo nero…».

Pisciatoio”: il termine, prosaico, è traslato dal piemontese, e rende bene l’idea, insomma. Veniva definito pure “pissore”, stando alla collocazione di quello davanti alla casa nuova del Municipio, nel marzo del 1874.

Gli orinatoi ottocenteschi

Erano in pietra, addossati ai muri delle abitazioni.

Nel 1878 si assiste a una proliferazione: sul muro esterno del Convitto civico e tre nuovi nella via del Borgovecchio, «atteso il mercato del pollame e delle uova che in quella si è da qualche tempo stabilito, ed attesa pure che in quella transita la gioventù ora assai numerosa, che recasi alle scuole». Furono installati per ragioni igieniche, per evitare che chiunque imbrattasse a proprio piacimento qualsivoglia luogo pubblico o privato, e per pubblico decoro, consentendo un minimo di riservatezza alla pratica fisiologica.

Erano soprattutto gli esercenti di locali pubblici a farne domanda, come l’Albergo dei Cavalieri di Malta, in pieno centro storico; spesso i proprietari di case storcevano il naso, allorché già ve n’erano vicino alle locande, come il Leon d’oro, nel 1881.

Anche perché il problema era la mancanza d’acqua corrente: è intuibile il lezzo che, con l’arrivo del caldo, questi emanavano nello spazio circostante. In merito, nel 1886, sull’esempio di Torino, il Comune ordinò un tinozzo in ferro, provvisto di un apposito mastello da 75 litri e degli attrezzi necessari per lo spurgo e la pulizia degli orinatoi cittadini.

Le innovazioni novecentesche

Nel 1914, a seguito della creazione della nuova rete idrica dell’acquedotto cittadino, l’Amministrazione addivenne a una riforma generale dei cessi e degli orinatoi pubblici.

clicca sull’immagine per ingrandire

Fossano venne dotata, non soltanto per il centro storico, di ben 112 orinatoi, oltre a tre latrine: una sul Viale di Stura, «nello spiazzo formato da detto viale contro i muri di cinta della palestra ginnastica e dell’oratorio San Luigi» [n.d.a. vicino all’attuale Ufficio postale, grosso modo]; un’altra sul Viale dell’asilo infantile «a 10 metri circa dal suo inizio da via Roma, posta coll’asse longitudinale sulla linea data dagli alberi» [n.d.a. Via Roma all’epoca era molto più corta e non esistevano gli attuali palazzo Mellano e il complesso in latterizio progettato dall’Oreglia, a fianco dell’asilo Celebrini. C’era invece un vialetto alberato che conduceva alla scuola materna, in quel tempo non ancora innalzata di un piano]; un’ultima in Piazza Vittorio Emanuele «da collocarsi in rapporto alla tettoia da provvedersi per il mercato della verdura» [n.d.a. si tratta di Piazza Castello, nella quale s’era spostato il mercato della verdura, che si svolge tutt’oggi].

I disegni, su progetto dell’ingegnere comunale Giachino Amistà, prevedevano chioschi per un posto, due posti. Era proposta una linea curata, ingentilita da ornamenti, su base di lamiera metallica fornita dalla ditta fossanese Viglietta Carlo.

[FinalTilesGallery id=’2′]

Gli orinatoi a muro “di tipo antico” furono sostituiti con quelli “di tipo moderno con effetto acqua”, in graniglia levigata, forniti dalla fabbrica torinese “Renzi”. È il caso, ad esempio, della sostituzione «dell’orinatoio esistente contro la torre municipale [n.d.a. campanile del duomo] e dell’orinatoio sito contro l’edificio della Cattedrale, presso la porticina laterale di via Garibaldi» con un chiosco a muro a due posti «da collocarsi in corrispondenza di una rientranza formata dal fabbricato della Cattedrale verso via Garibaldi».

Proprio la ditta “Renzi”, in seguito, fornì anche il modello «chiosco-orinatoio smontabile Tipo 900 in pietra artificiale a 2 posti» vd. QUI in piazza Dompé. Per “pietra artificiale” s’intendeva il finto granito di cemento lucido armato in ferro. D’altronde la fabbrica Renzi, in piena epoca fascista, scriveva «Ai signori Podestà ed alle Autorità interessate, che amano e apprezzano la nuova architettura, raccomandiamo questo tipo di chiosco per quartieri d’intonazione razionale e futurista…».

I chioschi per latrine della Renzi avranno successo in città anche più avanti: suo sarà pure quello in Piazza d’Armi, ancora in uso, acquistato nel 1958 vd. QUI

Gli anni Cinquanta segnano una svolta: si addiviene al progressivo smantellamento di gran parte degli orinatoi in città.

Ci sono peraltro buone ragioni. Tra queste è degna d’interesse la rimostranza dei residenti in via IV Novembre (lato portici via Roma) – e siamo già nel 1959 – per il tenore ironico con cui la sottoscrizione ne richiede la rimozione:

«… in periodo estivo non solo è la reggia di insetti di varia specie, veicoli di malattie, ma è anche, per opera di chi se ne serve con scarso senso di pudicizia o, addirittura, con menefreghismo immorale, incentivo di scenette innominabili…».

 

Note di riferimento