Il ducal naviglio

Il gruppo locale del F.A.I. ha organizzato un convegno sabato scorso sui canali fossanesi, e domenica 14 ottobre proporrà delle visite in loco. Siccome anche l’archivio storico è stato coinvolto, si ripropone qui di seguito l’intervento sul canale di Bra, in forma però più sintetica e divulgativa per non abusare della pazienza e degli occhi dei lettori.

L’ambizioso progetto del canale sabaudo nel Piemonte cinquecentesco

Il territorio fossanese è solcato da una fitta rete di bealere, di canali e di fossi d’irrigazione, realizzati soprattutto a partire dalla seconda metà del Quattrocento.

Inoltre vaste aree che dalla zona di Cussanio si estendono verso Savigliano sono caratterizzate da acque sorgive e falde acquifere quasi in superficie, tanto che basta scavare poco al di sotto del terreno per trovare ristagni d’acqua. Non per nulla l’attuale regione di Madonna dei campi un tempo era denominata Madonna del lago; come pure la Via Levata designava una sopraelevazione proprio per ovviare all’inconveniente del transito su terreni paludosi. Erano terre nelle quali si praticava pure la coltivazione del riso, almeno fino al sec. XVI.

L’opera idrica più imponente fu pensata dal duca Emanuele Filiberto, che nel 1560 affidò all’architetto Ponzello il progetto per un naviglio che da Cuneo avrebbe raggiunto Casalgrasso. Un canale in grado di consentire il trasporto via acqua di una delle merci più preziose per l’epoca: il sale, la cui gabella in quegli anni rappresentava un terzo delle entrate nelle casse ducali.

Fino a quel momento l’alternativa era l’uso di carri spinti da buoi, e quando la comunità di Fossano veniva precettata, come nel 1563, doveva provvedere a sessanta paia di buoi, stando a quanto rileva il Sacco in un suo studio del 1929, pena un’ammenda alquanto “salata” – è il caso di dire – di 200 scudi, qualora non avesse ottemperato entro tre giorni dall’ordine.

Nel giugno del 1568 a Cuneo vennero stipulati gli accordi con la città di Bra, nel palazzo del conte Della Trinità: il comune braidese avrebbe versato 2500 scudi per compartecipare all’opera, elargiti in tre rate.

Le ruote di mulino, ovvero l’unità di misura della corrente idrica, sarebbero ammontate a tre, usabili per i possidenti più ricchi dal 1° settembre al 1° marzo per la macina del grano; nei restanti mesi invece sarebbe andato l’uso – ai meno abbienti – di una ruota per la macina; le altre due invece da utilizzarsi per l’irrigazione. Bra si accollava lo scavo del canale, mentre al duca toccava la manutenzione ordinaria.

Nell’agosto di quell’anno si addivenne pure alla stesura degli accordi con Centallo, presso il palazzo arcivescovile di Torino. Lì il soprintendente generale della bealera ducale, il comune di Centallo e i nobili Bolleri, feudatari del luogo, convennero che si sarebbe usata anche l’acqua della bealera della Liona, ovvero uno dei due canali che servivano all’irrigazione dei vastissimi possedimenti che i gesuiti detenevano su Centallo e su Fossano: la non indifferente quantità di mille giornate piemontesi di terreni!

Il duca avrebbe indennizzato i proprietari dei possedimenti su cui passerà il naviglio e a suo carico andavano altresì i costi dei lavori; concedeva a Centallo il diritto di vendere acqua a Fossano, e in ragione di ciò il duca non avrebbe fatto distribuire a suo titolo acqua fin sotto le mura di Fossano.

E Fossano come la prese?

Il fossanese Pietro Barroto annotava la notizia sulla sua cronaca:

«alli 20 del mese di giugno è deliberata la nova bealera quale passa sotto el castello di Fossano e va a Bra… il 27 settembre si comenciò a lavorar e fu finita l’anno 1573».

Di consessi, convocazioni, accordi non c’è cenno nei documenti d’archivio. Questo perché fin dal 1314, anno al quale risale la sottomissione del Comune ai principi d’Acaja, Fossano cedette i propri diritti sulle acque e sui mulini al principe. I Savoia ne ereditarono il possesso e dunque, al momento di prendere delle decisioni, tagliarono fuori la città dalle intese.

Il fatto è che il naviglio presupponeva l’ingente lavoro preventivo del livellamento del terreno e della creazione, ai lati del corso d’acqua, di un percorso idoneo al passaggio di cavalli da tiro, per riportare controcorrente la chiatta.

Significava compromettere diversi mulini locali, nonché le strutture adibite alla forgiatura degli attrezzi, alla battitura della canapa, alla produzione di energia utile a molte attività artigianali (nb. definiti nei testi come martinetti, nasatori, battenderi, ressie).

La comunità fece sentire la sua voce contraria, attraverso un memoriale intitolato “Danni che riceveranno per la bealera concessa a gli di Bra nel territorio di Fossano”.

I punti sono leggibili cliccando sulle due immagini qui di seguito proposte; il testo è redatto in una grafia chiara e agevole da seguire.

 

Il progetto di naviglio così come concepito dal duca decadde, ma si concretizzò lo stesso con la nuova bealera di Bra, stavolta con la finalità sia d’incrementare i mulini e le attività manifatturiere sia d’irrigazione delle coltivazioni.

Ancora nel Seicento alla Città toccherà comunque far sentire la propria voce, allorché «si trovarono dannificati li di Fossano nel solito et antiquo uso delle Aque, dopo che è stata fatta la soa nova bealera per Bra», visto che per rinvigorire la corrente a vantaggio di Bra e di Cherasco fu dato ordine di chiudere i bocchetti della bealera delle Tavolere, a scapito dell’irrigazione della campagna fossanese, che avveniva come da consuetudine nei giorni festivi, allorché i martinetti e i mulini restavano fermi dal lavoro:

«se detta ordinatione havesse effetto cadrebbe in tanta rovina, che li mancherebbe non solo di far sussidi a Sua Altezza, com’ha sempre fatto, ma anco la propria provvisione… et con puoco utile a Sua Altezza».

Come a dire: “non potremo più irrigare come si deve i campi? Ebbene… il raccolto ne subirà i danni conseguenti, e così pure quanto dovuto alle casse dello Stato non potrà che corrispondere al poco o nulla”.

Tra l’altro i diritti sulle acque nel 1587 erano stati ceduti da Carlo Emanuele al fratellastro Amedeo, figlio naturale di Emanuele Filiberto, noto con il titolo di marchese di San Ramberto, e nel 1626 vennero acquisiti dal marchese di Bernezzo come dote di Margherita di Savoia, figlia del marchese di San Ramberto.

Basti dire che le liti che costellano i rapporti tra Fossano e i due marchesi attraversano quasi due secoli e occupano centinaia e centinaia di pagine di cause legali.

Nella primavera del 1643 Madama Cristina accoglierà le suppliche locali, stabilendo, tra l’altro, che:

«s’introduca nella suddetta Bealera tutta la maggior quantità d’acqua che sarà possibile, posposta ogni difficoltà et non obstante qualsivoglia opposizione, dandoli circa ciò… tutta l’autorità necessaria che così porta il servizio di detta Altezza Reale, e la precisa nostra volontà».

Sul finire del secolo un manifesto sulla gestione delle acque, a firma del Pallavicino, tra i vari divieti intimerà di non raccogliere rami per far pali per le vigne, né di tagliare piante sistemate sull’alveo per mantenere gli argini.

Sono accortezze, al pari delle ripulitura dei canali all’arrivo della primavera, che attestano la cura riservata ai corsi d’acqua all’epoca. Anche la difesa delle sponde è ribadita con il divieto ai pescatori e ai guardiani delle bestie di avvicinarsi, per evitarne il danneggiamento o la manomissione.

 

Gli orti fossanesi

La zona sottostante il castello, oggi la via San Giuseppe e via Matteotti fin verso la stazione ferroviaria, un tempo era adibita alla coltivazione di ortaggi dei privati.

Un paesaggio quasi rurale, che beneficiava proprio del canale di Bra per l’irrigazione degli orti, attraverso due bocchetti per le prese d’acqua istituiti nel 1609, situati tra il ponte dell’Annunziata (quello esistente oggi sopra Via San Giuseppe e la salita Salice) e il ponte di San Bernardo (in Via Cesare Battisti).

Nella mappa del 1710 esiste già un nuovo ponte “del castello“, in aggiunta ai due precedenti (ponte che da Via San Giuseppe introduce all’antica Via Salita al castello) .

In questi disegni del 1757 e del 1767 si nota il quarto ponte, quello “nuovo” (dove c’era la torre di Chicco, all’inizio della salita al castello verso la porta di San Martino).

Tre bocchetti per l’irrigazione, per l’esattezza, perché uno in più fu autorizzato per gli orti del Drua, troppo discosti per usare quelli comunali. Questo però era ridotto a 3 once di grandezza, e l’orto poteva essere irrigato una sola volta alla settimana, per tre ore massime d’orologio, e toccava chiudere prima uno dei due bocchetti della città per non abbassare troppo la portata dell’acqua nella bealera.

All’irrigazione degli orti si aggiunse più avanti un’altra attività legata al canale: quella delle lavandaie, al cui argomento sarà dedicato un apposito articolo più avanti.

 

Note di riferimento